Terapie migliori per il tumore dell’ovaio
L’intervista di Marco Infelise
Roldano Fossati, 59 anni, medico di base a Paderno Dugnano (Mi), ha una specialità in statistica e da sempre ha coltivato un interesse per la ricerca clinica. Stregato dall’oncologia, settore che lui stesso definisce “estremamente interessante”, fin dagli anni Ottanta fa il ricercatore presso l’Istituto Mario Negri di Milano, occupandosi del tumore dell’ovaio. Ama suonare il pianoforte.
PS: Il “Mario Negri” di Milano è tradizionalmente uno dei poli di ricerca italiani più rinomati
Roldano Fossati, 59 anni, medico di base a Paderno Dugnano (Mi), ha una specialità in statistica e da sempre ha coltivato un interesse per la ricerca clinica. Stregato dall’oncologia, settore che lui stesso definisce “estremamente interessante”, fin dagli anni Ottanta fa il ricercatore presso l’Istituto Mario Negri di Milano, occupandosi del tumore dell’ovaio. Ama suonare il pianoforte.
Di che cosa si occupa con la sua èquipe?
«Non strettamente di prevenzione, perché nel caso del tumore dell’ovaio purtroppo è molto difficile anche solo parlarne. Così come non sembra realizzabile una realistica diagnosi precoce. È un tumore aggressivo che spesso si presenta in fase avanzata. Il grosso degli sforzi, compresi i nostri, è oggi quindi concentrato sul trattamento della malattia».In quale modo?
«Attraverso gli studi promossi all’interno del “Mario Negri”, oppure con la collaborazione internazionale con gli altri centri di oncoginecologia sparsi per tutto il mondo, che danno vita a tavoli di discussione di centinaia di ricercatori che – a cadenza semestrale – discutono su nuovi trial, e creano aggregazione per interagire in maniera meno supina con l’industria farmaceutica».Che cosa hanno dato nel corso del tempo le vostre ricerche e qual è il tema caldo del momento?
«Siamo arrivati a nuovi farmaci, in particolare i cosiddetti antiangiogenesi, in grado di bloccare la formazione di vasi sanguigni che vanno a nutrire le cellule tumorali. Poi esistono altri farmaci biologici, come ad esempio gli inibitori iMac, che possono bloccare delle linee metaboliche che controllano la duplicazione delle cellule del cancro. Si utilizzano anche in altre forme di tumore, ma in quello dell’ovaio, essendo la malattia particolarmente aggressiva, i risultati si vedono abbastanza precocemente. È un buon campo di esercitazione».I progetti specifici creati all’interno dell’istituto?
«Stiamo sfruttando la grande tradizione portata avanti da Maurizio D’Incalci di studio sulla trabectedina, un chemioterapico di origine marina, e stiamo attivando un grosso studio internazionale dal nome Inovatyon nel quale trattiamo le pazienti con tumore all’ovaio recidivate tra i 6 e 12 mesi dalla fine di una precedente chemioterapia. È uno studio su cui abbiamo investito molto e che ci porta sul palcoscenico internazionale ».Con i centri di quali nazioni collaborate?
«Oltre ai centri italiani collaboriamo con la Svizzera, i paesi nordici, la Germania, il Belgio, l’Olanda, la Spagna e la Gran Bretagna. È faticoso perché i meccanismi della collaborazione non sempre sono lineari, a volte si bloccano per motivi banali, ma grazie anche a Elena Copreni ed Elena Biagioli, i veri motori dei nostri progetti, andiamo avanti con soddisfazione ».La più grande soddisfazione che le ha dato l’attività di ricerca?
«Cinque anni fa mi ero appassionato a una ricerca nella quale avevamo valutato l’utilità o meno della linfoadenectomia nel tumore dell’ovaio. La linfoadenectomia è un momento chirurgico che impegna circa un’ora e mezza in più rispetto all’intervento classico per questo tipo di tumore, ha una sua morbilità e ci si è sempre chiesti se fosse utile. Da un nostro studio randomizzato veniva fuori che questa pratica, pur suggestiva perché permetteva di controllare ancora meglio il tumore e togliere delle possibili metastasi, non portava vantaggi reali alle pazienti ma le caricava anzi di ulteriori morbilità. Anche se in un certo senso dall’esito negativo, lo studio si traduceva in un risparmio di aggressività nei confronti delle pazienti».Quali sono le componenti per fare bene il ricercatore?
«È necessario avere passione per combattere ogni giorno contro i problemi più vari, da quelli burocratici alla mancanza di fondi fino alla competizione con studi molto più ricchi economicamente. La motivazione è fondamentale sia al nostro interno sia nei confronti dei clinici. Solo così arriva l’amore verso i dati – per noi fondamentali – e di conseguenza la capacità di trattarli correttamente dal punto di vista metodologico».Quante persone coinvolge ogni ricerca?
«Quattro o cinque persone su ogni clinical trial e considerate che lavoriamo con un centinaio di centri».Un messaggio di speranza nella lotta al tumore dell’ovaio?
«Negli anni si è visto un miglioramento costante nella sopravvivenza media di questo genere di pazienti. Se non si può garantire la guarigione, ormai si possono infatti garantire terapie efficaci. Ci auguriamo che ogni paziente possa entrare in uno studio clinico e, in attesa del nuovo Einstein della medicina, è necessario pubblicare anche gli studi negativi che comunque insegnano qualcosa».Non esistono in definitiva consigli utili per evitarlo?
«Pochi, è uno strano tumore che sfugge alle regole nonostante lo screening. È un tumore infido, asintomatico soprattutto nella prima fase, a differenza di quello della mammella dove si fa oggi addirittura una sovra diagnosi. Per fortuna è considerato un tumore abbastanza raro».Il suo obiettivo professionale?
«Poter continuare a compiere questi studi se possibile con un sostegno indipendente e fondi nazionali non legati all’industria farmaceutica. È il miraggio di chi fa il nostro lavoro».
Terapie migliori per il tumore dell’ovaio articolo di Marco Infelise
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